POESIE – UOMO

Una serie di componimenti dedicati all’uomo e al suo impatto su questo mondo. Poesie di denuncia, forti, urla laceranti a difesa dell’umanità che dovrebbe essere a fondamento dell’amore per il mondo e che invece sembra averlo abbandonato, a fronte del successo del denaro, del potere e delle politiche di disgregazione.
Ma l’animo umano non è solo terreno fertile per meschinità e grettezza; l’uomo è ancora la speranza per se stesso e per la propria casa, anche quando la speranza non ha più senso e sembra averlo abbandonato in maniera irreparabile. L’uomo è la chiave, solo in lui è la forza di compiere il “primo passo, un piccolo primo passo che muoverà l’aria in un vento potente che forse riuscirà anche
a trascinare lontano i miasmi del presente”. Perché oggi più che mai, “C’è bisogno come del sole e dell’acqua e della terra di quei pochi che oggi hanno coraggio. Da loro un briciolo di dignità che ci consente ancora il sogno e la speranza”.

Uomini

È ormai tardi
quando con viso terreo e denti serrati
hai dovuto ammettere,
spaventato dalle tenebre incalzanti
e bagnato dal più freddo dei sudori,
di esserti sbagliato da mille
e forse più generazioni.
È ormai tardi:
i tuoi figli sono ammalati
e vivono in un deserto.

Migranti

E il vento portò l’aroma del sud,
portò l’aria calda e umida
che sapeva di mare.
Portò l’ebbrezza di un sogno
coi granuli fini di sabbia dorata.
Ci lasciammo avvolgere,
chiudendo gli occhi,
respirando piano coi nasi all’insù
e ci sembrò d’essere felici
in altri luoghi odorosi di spezie,
di fiori e di bellissime donne.
Ci sembrò di correre lieti
in ogni paese del mondo.
Non staccavamo gli occhi da noi:
il vento ci portò fin sulle stelle.
Poi, fummo distratti da un nulla,
da un soffio appena più lento,
da un odore diverso, pungente e cattivo
che forse proveniva da noi.
Infine per un lungo solitario attimo,
sgomenti, li vedemmo,
sbattuti dalle onde alte,
trascinati dai venti forti,
consumati dall’acqua, dal sale, dai pesci.
Li vedemmo,
sebbene per un solo lungo solitario attimo,
come fossero qui,
quei morti annegati.
Il loro puzzo era il nostro.

Israele

Degli ebrei mi interessa quanto
dei maomettani o dei cristiani,
dei buddisti o degli induisti.
Vorrei poter criticare chi governa
senza essere accusato di non amare dio.
Vorrei dire fascista al fascista
e illiberale a chi non rispetta diritti.
Vorrei battermi per gli ultimi e gli umili,
per gli oppressi e per chi è tenuto servo.
Vorrei parlare delle ingiustizie di questo mondo
e cercare di rimuoverle
senza dover meritare premi o castighi.
Solo perché sono un uomo.
Solo perché soffro con chi soffre
e muoio con chi muore.

La fame, gli odi e le guerre
non hanno nulla a che fare con dio.

Non siamo niente e forse ancora peggio

Non siamo niente e forse ancora peggio,
nondimeno i cuori ci pulsano colmi di rancori
e di odi e di guerre il mondo fecondiamo.
Ci ha resi parvenze d’uomo, il tempo.
Ma che ne sappiamo noi di cosa è l’uomo?
Anche il nostro sembiante di erranti fantasmi,
osceni e incapaci a provare vergogna,
immersi fra letali macerie e veleni donati
dall’asservita e torturata natura, non vediamo.
Conta – ne siamo sicuri – guardare alto nel cielo,
non quello grigio piombo acido delle nostre scorie
che pesa e ottenebra teste e polmoni,
ma il blu e bianco immaginato di nuvole,
conta lasciarsi incantare dal quel movimento,
e lasciarsi illanguidire e impoltronire, e perdersi,
e disquisire di vita e di infinito e di etica:
è il bello! il bello! il bello che ci rapisce.
(Dal quotidiano nulla nascono artisti potenti,
tristi a narrare il bello e a farci dimenticare
che ci infossa il mercato e il denaro.)
Non ci avvediamo neppure di quanta
vendicativa stanchezza la Terra trabocchi:
ci hanno fatto credere di essere simili a Dio.
Se non ci fossero il sole e la luna e le stelle,
il mare e la terra e i monti,
le lucciole, i vermi, gli animali tutti
e le piante e i fiori, i colori e i suoni,
se non ci fosse una celeste corrispondenza fra me e loro,
fra me e l’universo intero, vitale e compassionevole,
un intimo serrato legame di sangue,
come tra pelle e corpo e cuore e sogni,
come potrei amarti? portarti sulle labbra e negli occhi?
essere la tua ombra?
Ma fin quanto potrà reggere il mio sguardo?
Già mi sento svaporare nell’umano nulla invadente.

Omologante mondo

C’è un solo sentiero per tutti alla base del monte.
Gira tra alti e bassi in un eterno ritorno.
Esperti e sapienti dicono che è unico e attraente
e che a tentare di sfuggirne si rischia più di un inferno.

Mi chiedo da sempre come sfuggire alle frottole,
alle cose già viste, gli stessi visi di sempre,
gli stessi paesaggi, le stesse parole.

Non basta inventarsi un dio col suo paradiso:
è cosa vecchia, che riguarda morti,
né sognare che un giorno cambierà,
che un nuovo sole sorgerà.

Mi sono stancato di aspettare l’isola che non c’è.
Di affidarmi ad altri, alle unioni che fanno la forza.
Ai gruppi che fanno pressione.
Cessiamo di allungare le mani
a raccattare briciole, a chiedere elemosine.

Quando l’indignazione che ci freme nelle viscere
attribuiremo alla nostra indifferenza,
alla nostra obbedienza, al nostro servilismo;
quando non daremo colpe ad altri
e sapremo riconoscere i nostri vizi;
quando smetteremo di delegare a padroni
il potere di avvelenarci l’aria, la terra, il cibo e l’acqua,
quando riprenderemo quello che è nostro,
avremmo fatto, finalmente, un primo passo,
un piccolo primo passo che muoverà l’aria
in un vento potente che forse riuscirà anche
a trascinare lontano i miasmi del presente.

Gli operai di Pomigliano e Mirafiore

Povera gente, povera di umanità,
quella ridotta a difendere un sovrano indegno
e le nefandezze di potere e denaro.
Povera gente, povera di intelligenza, cultura e civiltà,
quella che preferisce la sudditanza alla cittadinanza.
Quella che abbassa la testa
e dice sì ad ogni ricatto dei padroni
e pensa necessari i padroni e superflua se stessa.
Quella che si vende e prostituisce
e vende e prostituisce i suoi figli,
e ha paura della morte, dei patimenti, della precarietà.
Quella che non ha tempo che per lavorare,
bisogna pur vivere.
Non si accorge, questa povera gente povera,
povera di conoscenze e facile alle illusioni,
che muore lentamente ogni giorno,
che patisce l’inferno
e che è precaria da sempre.

Bisognerebbe che il mondo fosse pieno di Bartleby
e che il suo pacato e fermo “preferirei di no” risuonasse alto nei cieli.
Ci sarebbe bisogno di non parlare della miseria del re
ma delle miserabili sorti di chi, volontariamente,
si inchina ancora al cospetto del miserabile re.
C’è bisogno come del sole e dell’acqua e della terra
di quei pochi che oggi hanno coraggio.
Da loro un briciolo di dignità
che ci consente ancora il sogno e la speranza.