POESIE – NATURA

Richiamo continuo, vocazione e amore sincero; questi erano i sentimenti di mio padre nei confronti della Natura. La Natura intesa come Grande Madre, come Pianeta tutto, come Dio – per citare Baruch Spinoza, del quale Giuseppe era grande studioso ed estimatore. Ma allo stesso tempo la natura violata, quella di cui l’uomo si appropria indebitamente, sacrificata ad un economia che arricchisce pochi e schiaccia tutti gli altri.
La sua passione per il viaggio, per la montagna, per gli animali, muoveva da qui e andò intensificandosi negli anni, in maniera inversamente proporzionale alla sua partecipazione politica attiva. Quasi volesse in qualche modo ritirarsi dai fallimenti del dibattito politico e ritrovare una semplicità ancestrale. Ma mio padre non smise mai di essere animale politico, solo si consolidò in lui la convinzione che i grandi cambiamenti sarebbero arrivati dal basso e dall’azione unita dei singoli più sensibili e più coscenti. Da qui prese piede, negli anni, il suo avvicinamento all’alimentazione vegana e a scelte di vita più consapevoli, che avessero un più leggero e benevolo impatto sul mondo.

Desiderio

Accoglietemi nel vostro eremo boscoso
come un pellegrino d’altri tempi,
come uno sperduto e fragile cerbiatto.
Nel vostro silenzio avvolgetemi
come le nuvole avvolgono le cime vicine
e fatemi parlare con dio
che degli uomini sono assai stanco.
Avvolgetemi come la terra con chi le ritorna.
Fatemi sentire tutt’uno con dio.

Alla dea vacca

Forse la terra non ha amica più mite di te.
Non ti ribelli al ferro, non sai cos’è violenza
solo i tuoi occhi grandi,
solo i tuoi occhi tranquilli trafiggono i cuori.
Noi non ce ne avvediamo. Guardiamo
i prati verdi e i cieli blu in cui ti hanno calata
in grandi cartelloni, a pubblicizzare latte,
formaggi e altre porcherie.
I nostri figli ti conoscono dipinta,
ai nostri figli è proibito vederti sofferente.
Ma c’è anche qui la stessa grande immagine,
di fianco al banco su cui ti hanno stesa,
squartata in pezzi d’un rosso artefatto,
incelofanata in trasparente petrolio.
Ma che ci fa quel brioso manifesto nel luogo dell’oblio?
La spudoratezza degli umani non ha limiti.

Continuo per il mio sentiero

Continuo per il mio sentiero
incurante degli strattoni di sguardi fraterni
e di mani che si dicono amiche,
e del vento forte che il corpo fa ondeggiare.
Vedo là, ammirato, fiori di ogni colore
e alberi imponenti e dolci pendii
di erba giallo-arancio cotta dal sole.
I faggi, i castagni, gli abeti verdi
e i loro rumorosi abitanti
mi fanno festa
e assorbono ogni mia attenzione.
Nemmeno la pioggia o il freddo intenso,
la notte buia senza stelle né luna,
possono farmi rimpiangere
il cicaleccio assordante del rifugio
ove puzzolenti bipedi sono intenti
ad almanaccare circa le sorti
magnifiche e progressive
della loro nefasta civiltà.

Sulle orme di San Francesco

Attraversando monti, valli e boschi
e ruscelli e scoscesi luoghi
trovo sempre tracce d’uomo:
un campo arato,
un pascolo abbandonato,
un luogo appartato al Santo caro
e sempre un sentiero
su cui ha, nei tempi, camminato domandando.
Per l’uomo che cammina
la natura umana e
l’umana natura
giocano ammiccando
nell’uomo che cammina.

Per monti

La notte ghiaccia a Baranca
e il vento che piega e gela a Egua, a Termo, a Mud.
Le gambe tremule e stanche
per il sofferto lungo incedere.
Un cuore saldo e la mente attenta che vince ogni fatica
e curiosa cattura nuove visioni, care emozioni:
un anemone giallo, una genziana aperta,
un semplice e caro ranuncolo.
Il muso dolce di un cerbiatto lontano
e lo squittio acuto della marmotta che salta sui sassi a caccia di sole.

Non bastano a scordare le bombe e i morti
e quei maledetti stronzi visti alla tivù, pacati
discutere a tavolino col solo viso inorridito
per le strage di innocenti,
per le torture e il mancato rispetto di diritti,
ogni giorno perpetrati da soldati stravolti a Bagdad.
Come se la guerra che hanno voluto
e invocata come giusta e liberatrice,
potesse essere altro.
No, non salveremo le nostre anime.

Attorno al Capio

Solo, parla con sé, l’orgoglioso uomo.
Non ferma i suoi in altri occhi,
non interseca la sua con altre vie.
Il suo dolore è tanto e forte che l’opprime:
gli toglie il fiato, gli appanna gli occhi.
Impietoso si scruta dentro
a ritrovare del mondo intero i mali.

E’ al centro dell’universo l’orgoglioso uomo.
A che gli servono gli altri
se la sua Sublime Invenzione lo sazia.
A che gli serve vagheggiare un altro mondo
se i suoi perenni affanni
nutrono e sembrano quietare l’estrema ansia
che avvolge come nebbia la sua preziosa unicità.

Corno Bianco

La fatica gioiosa che porta alla vetta
corpi forti e agili, anche fiacca e strema
e raggela pensieri in menti spente e stanche
tanto che paiono vuote di senso ed amore
come ogni giorno l’opprimente lavoro
o l’incertezza della precaria esistenza
o l’incedere vuoto del quotidiano nulla
produce solo ambigue parvenze d’uomo.
Eppure anche del corno la cima bianca
che penetra l’immanente azzurro cielo
è dai nostri avidi piedi infine calpestata
come costrizioni di dovere ammantate
fanno libera la servile condizione,
smascherate rivelano un mondo nuovo.

Capezzone, Cima Lago, Altemberger

Il duro cozzare di roccia e bastoni
non penetra i silenzi che ti avvolgono
mentre lento percorri la faticosa via.
Né spezza l’incanto il lugubre nero verso
di un corvo imperiale che pur vibra l’aria
o lo squittio della bisbetica marmotta.
Sono un’abitudinaria veste i silenzi
che dall’anima seppelliscono il mondo.
Sono l’eterna malinconia che consuma
chi spera futuri senza odi né guerre
e insieme, inattuale e tragico, soffre
ogni sofferenza dell’umana esistenza.

Tagliaferro

A vederti da Termo nero e tagliente
o da Mud da cui mostri il tuo lato più oscuro
o ancora da Rima che imponente sovrasti
chi direbbe mai che passo dopo passo,
in appena qualche misera ora rubata
ad una lunga, irrilevante e normale vita,
si possa calpestare la tua rocciosa cima?
Ma passata l’euforia della vetta, scendendo a valle,
l’uomo qualunque subito dimentica l’impossibilità violata.
E pensando ai troppi mali che dalla umana stupidità
traggono origine e alla propria piccola
e trascurabile e insignificante esistenza,
si lascia prendere dalla quotidiana normalità:
quella secondo cui mai e poi mai
potrà più esserci un’altra volta.

Una via del sale

Oh Antola bella che tanto disti dal mare
e da Varzi da cui iniziammo il cammino
che gioia nei cuori ci inculchi
quando, come nani avvinghiati alla testa di un gigante,
riusciamo a guardare lontano il Rosa, il Monviso.
E a pensare alla fatica fatta e a quella da fare domani
che sono la causa di tanto gioire.
E a quegli uomini, mercanti di sale
e a tutti gli altri che le loro orme seguirono.
Ai loro patimenti, al freddo, alle schiene piegate dai pesi.
Verrebbe voglia di fuggire il presente.
Ma il nostro viaggio è fatto in un giorno rosso di sangue
e il cuore e la mente ci fanno violenza, ci strappano ai sogni.
Ci fanno pensare allo sperduto, agonizzante occidente
disposto a seguire verso nuovi e ormai vicini lidi rossi di sangue
i ricchi e incanagliti capi che il popolo stupido rende forti e sicuri.

Varazze, 11 Settembre 2006

Passo  del Turlo

Ti indurisci come quelle pietre
che si vedono salendo verso il Turlo
quando incontri così spesso,
come i fiori nella buona stagione
lungo la via che sale verso il Turlo,
mendicanti e storpi e diversi a vario titolo
chiedere elemosine in vie imbellettate
a glorificare con due mesi di anticipo
fra consumo, noia e indifferenza,
l’ennesimo balordo, tristissimo natale.

Ma il troppo è troppo e
per necessità, infine, volgi lo sguardo altrove
come quando il baratro ti fa paura.
A vedere così tanta umanità degradata
la mente si incupisce, il cuore lacrima
e gli occhi si appannano.
I tuoi pochi spiccioli,
l’unica cosa che hai,
sono inutili
e la disperazione ti assale
mentre la gente che ti ama,
come se non sapesse,
chiede cos’hai.

Poi frettolosamente
ti stropicci gli occhi come un vecchio
incapace a trattenere lacrime e istinti
o come un solitario viandante
abituato a incontrare le pietre dure,
il pungente freddo o i raggi infuocati del sole,
fra i massicci paesaggi che pur si godono
salendo lentamente verso il Turlo.
A dolerti non è la miseria di chi, costretto, chiede.

Massa del Turlo

Le promesse che ci facciamo
sono dolci sguardi
che ci son giorni che non si ha fiato in bocca
neppure per un vedrai che cambierà.

Sono amori grandi
le promesse che ci facciamo
che non si curano di come la vita prende e trascina,
indifferenti a tutto quel che sarà.

Sono una carezza che dura una goccia di pioggia,
un raggio di sole, una rondine che torna.

Le promesse che ci facciamo
sono come questa cima
che toglie di bocca il fiato
tanto è aperta all’orizzonte.
Sono come questa cima
su cui nessuno resta.
Sono come questa cima
le promesse che ci facciamo.

Verso la Grigna

Seminerò molti fiori intorno alla casa
e sui balconi e nei prati d’intorno.
Forse i vivi e accesi colori potranno,
forse gli intensi profumi
e le forme curiose
e i giochi che fanno con l’aria leggera,
loro che tremuli sfidano,
potranno
forse bloccare
il pianto che ho nell’anima.

Verso il Barone

La mia gabbia ho tinto di rosso
un’ultima volta
allo sbocciare della scorsa primavera
ho colorato di intenso e vivace rosso
la mia gabbia come ad ogni primavera
di tutti i miei non pochi anni.

E’ un dono dei miei avi
che vive di rabbia sofferta
e di mai bastante lavoro
la mia gabbia brillante e rossa
sembra la mia ombra
tanto mi si è appiccicata addosso.

E’ un dono che viene da lontano
da mille sofferenze e da dimenticate genti
questa gabbia così diversa e rossa e bella
che mai ho potuto abbandonare:
è come la radice per un albero che vive.

Ma la stanchezza di un autunno nebbioso
mi prese, lo scorso anno,
e ancora non mi abbandona.
Non vedo più luce e sento svanire
la speranza di una umanità nuova
mentre la mia preziosa gabbia ingrigisce
senza che i miei sensi sentano,
per la prima volta,
e mentre salgo il monte Barone,
il bisogno della consuetudine.

Mi chiedo che ne sarà della mia gabbia
che era rossa, che ne sarà
del rosso intenso e vivo che fu il mio orizzonte.
Mi chiedo, mi chiedo e mentre dimentico
di chiedere affaticato dall’ascesa,
lo sguardo teso alla mia evanescente gabbia,
vedo per la prima volta il trasparente nulla
che c’è sotto la crosta disfatta
di quel rosso che fu brillante, ma non tremo.
Non tremo.
Alzo lo sguardo verso più lontani mondi.