IN VAL DI SUSA E A CASA NOSTRA

Articolo del 6 Marzo 2012

Quello che sta succedendo in questi giorni in Val di Susa mi smuove ricordi che richiedono impegno e pensiero.

Perché penso a Karl Liebknecht, unico deputato a votare contro i crediti di guerra chiesti dalla Germania al suo popolo all’inizio della Prima Guerra Mondiale? O a suo padre Wilhelm che con il solo August Bebel compì la stessa impresa una quarantina d’anni prima, in occasione della guerra franco prussiana? Appartengono alla mia personalissima storia questi dimenticati personaggi. E alla storia del fallimento di una grande visione del mondo, quella del socialismo, che si infranse miseramente già sul suo nascere, appena la patria chiamò al dovere i suoi concittadini.
Ricordo anche una canzone di Fabrizio de Andrè che parlava di un uomo che vide un altro uomo in fondo alla valle.

“che aveva il tuo stesso identico umore
ma la divisa di un altro colore
sparagli Piero , sparagli ora
e dopo un colpo sparagli ancora
fino a che tu non lo vedrai esangue
cadere in terra a coprire il suo sangue
e se gli sparo in fronte o nel cuore
soltanto il tempo avrà per morire
ma il tempo a me resterà per vedere
vedere gli occhi di un uomo che muore
e mentre gli usi questa premura
quello si volta , ti vede e ha paura
ed imbracciata l’artiglieria
non ti ricambia la cortesia
cadesti in terra senza un lamento
e ti accorgesti in un solo momento
che il tempo non ti sarebbe bastato
a chiedere perdono per ogni peccato
cadesti in terra senza un lamento
e ti accorgesti in un solo momento
che la tua vita finiva quel giorno
e non ci sarebbe stato un ritorno.”

Il nesso tra ricordi e vita è dato da un mio grande timore. Quello di esserci cacciati in una storia in cui diventa sempre più difficile scegliere il confronto, la parola, la ragione. In cui a prevalere è, sempre di più e solo, lo scontro.

Quali potrebbero essere i motivi che giustificano una grande opera come la Tav in Val di Susa o l’ingrandimento della Malpensa a casa nostra?
In varie conferenze ho sentito esperti raccontare che sono scelte incomprensibili dal punto di vista economico. Il calo di passeggeri e il calo di merci segna una tendenza ormai irreversibile che aumenterebbe ancor di più se la crisi, come sembra ormai evidente a tutti, andasse peggiorando. Non servono nuove piste, né treni ad alta velocità.
Aggiungo io che non servono neppure grandi ponti, grandi ospedali, grandi centri commerciali, grandi strade, grandi porti. Non serve a nulla tutto ciò che è mastodontico. Non solo non serve ma è addirittura uno spreco e un danno enorme per comunità e territori.

Sono stanco di sentirmi raccontare e di raccontare questa storia. Inizio a pensare che forse il continuare a ribadirlo non sia più sufficiente.

Di cosa stiamo parlando in realtà?
Quando diciamo che una grande opera non serve intendiamo che non serve allo scopo immediato per cui è costruita perché dovrebbe essere solo il fruitore, con la sua presenza e il suo bisogno, a renderla necessaria. Quindi se non ci sono fruitori, non c’è scopo.
Diciamo questo come se la forza della ragione dominasse il mondo e come se la parola fosse l’unico strumento del confronto e della ricerca del consenso.
In realtà, in economia, a fruire di un bene prodotto, non è solo chi lo utilizza immediatamente ma anche chi lo produce, se a pagare è una comunità in grado di decidere. Quindi è inutile scomodare l’economia e le sue leggi che come ogni altra scienza non è al di sopra delle parti. E nemmeno è utile scomodare dei tecnici che, come l’economia, si piegano alle esigenze – alle ideologie, ai padroni, alle convenienze-.
Sarebbe più utile parlare di politica ovvero dell’ambito in cui si compiono le scelte e in primo luogo chiederci dove è situato il luogo della politica, il luogo cioè, in cui si decide il nostro futuro.
A mio parere questo luogo è molto spesso fuori dal contesto democratico.
E’ collocato nei consigli di amministrazioni di multinazionali e banche; nelle commissioni e sottocommissioni composte da tecnici e burocrati di cui si sono attorniati i parlamenti nazionali e sovranazionali, normalmente molto sensibili alle pressioni delle numerose lobbies esistenti; nelle fondazioni culturali sovvenzionate dai grandi guru della finanza o del capitalismo globalizzato. Le persone che girano in questi luoghi, spesso le stesse, non sono elette da nessuno ma decidono per tutti.
Ma anche quando il luogo della decisione è collocato all’interno della democrazia, ad esempio nei parlamenti, di che democrazia parliamo? Parliamo, nel caso migliore, di una democrazia rappresentativa in cui gli eletti ormai non rappresentano che una piccola parte delle cittadinanza e in cui le maggioranze che si costituiscono a governare rappresentano una ancor più piccola parte di cittadini che ovunque sono ormai soltanto delle minoranze.
E’ indubbio che viviamo una crisi della rappresentanza che ha trasformato in casta gli eletti e in sudditi i cittadini, elettori e non elettori. E quando è una casta a governare, servono sempre grandi opere perché smuovono montagne di soldi pubblici con cui è possibile comperare ed arruolare in gran quantità futuri sostenitori. Sembra che la Tav in Val di Susa costerà ai cittadini italiani venti miliardi di euro e che per la sola galleria esplorativa, appaltata ad una cooperativa di Ravenna, siano stati stanziati novantatre milioni di euro che a loro volta si sono riversati in molteplici subappalti.
Ẻtienne de La Boétie nel suo Il contro uno scritto nel lontano 1549 ci diceva:

Le tirannidi non si differenziano, infatti, nel modo di governare, ma solo per come hanno acquistato il potere. Alcuni lo ottengono per elezione popolare, altri con la forza delle armi, altri ancora per successione familiare. Ma tutti governano con gli stessi metodi. Non si illuda, quindi, chi vive in una repubblica.

Il cittadino che elegge i governanti non si illuda! Perché a poco a poco verrà abituato a trasformarsi in suddito, ci dice La Boétie. E, poco oltre, aggiunge:

L’abitudinarietà in cui ci si adagia viene poi assecondata con mille altri modi, offrendo svaghi, giochi e spettacoli, elargendo elemosine, favorendo la devozione popolare nei confronti del sovrano. Ma il segreto ultimo del dominio, la condizione essenziale per l’esistenza di ogni governo sta nella rete di collaboratori, confidenti e ruffiani di ogni genere che esso riesce a mantenere direttamente distribuendo ricchezze e potere.

Ecco il motivo per cui servono quelle che ci ostiniamo a chiamare grandi opere ma che meglio sarebbe definire grandi crimini del potere. Crimini doppiamente, perché trasformano in servi degli uomini e perché devastano i territori.

Nelle varie Val di Susa d’Italia e del mondo, si sta vivendo uno scontro durissimo fra concezioni diverse ed anzi opposte. Da una parte coloro che pensano sia il centro ad avere il diritto di imporre sue decisioni a periferie sempre più devastate, sempre più povere e molte volte, purtroppo, divise. Dall’altra popoli, individui e territori che vorrebbero decidere in prima persona dei loro destini, delle loro vite e di quelle dei loro figli.
Non si tratta di due visioni della democrazia, ché la prima non riguarda affatto la democrazia ma il potere. E il problema vero non è che in democrazia occorre scegliere, come qualcuno anche a sinistra si ostina a ripetere, ma chi è deputato a scegliere.
Chi dovrebbe mai decidere della mia vita?
Non esiste nessun delegato a cui poter lasciare una simile questione.
Diceva Carl Schmitt che

Il popolo non può essere rappresentato. Non può essere rappresentato perché deve essere presente, e solo qualcosa di assente, non di presente può essere rappresentato

Ma come è possibile che il popolo sia presente, se ogni volta che lo è, come ad esempio in Val Susa, si accampano pretesti per zittirlo?
A mio parere tutti i percorsi che vanno nella direzione di rendere presente il popolo hanno qualcosa di buono. E tutti vanno perseguiti ed appoggiati nel rispetto delle volontà dei singoli o dei gruppi che se ne fanno promotori.
Ma con due avvertenze.
La prima è che quando si va alla guerra non c’è scelta: o si spara o si viene sparati. Quando si va alla guerra è troppo tardi per i valori, per il ragionamento, per l’umanità. In questa prospettiva non ci sono mai né vinti, né vincitori. Non è una questione tattica e di convenienza – lo scontro sarebbe impari contro reparti addestrati e ben equipaggiati – ma una questione di civiltà: lo scontro è sempre una barbarie indegna per ogni essere umano.
La seconda è che non è utile dividere chi crede nella tradizione e chi crede giusto aggiornare i propri strumenti di lotta.
Se qualcuno pensa di ottenere risultati con la battaglia legale, quella fatta con l’ausilio delle leggi e degli avvocati, che segua il suo percorso. Lo stesso vale per coloro che, nel solco della tradizione, fanno pressione sui politici e sui partiti (ammesso ce ne siano ancora di disponibili), che continuano ad andare a votare o che pensano utili manifestazioni, cortei, occupazioni.
Da parte mia penso sia ora di affiancare ed arricchire queste lotte con nuovi strumenti perché da sole non ci hanno condotto a nulla. Anzi, inevitabilmente ci hanno sempre incanalato in percorsi in cui, alla fine, ci si è sempre ritrovati l’un contro l’altro armati.
Se il tutto si fa con lo scopo di aumentare il Pil, se l’unico valore rimasto, l’unico dio a cui inchinarsi, è il mercato, noi possiamo contrapporre una scelta diversa che non richiede deleghe e nessun posticipo in un lontano futuro. Una scelta che riguarda solo noi, individualmente. Una scelta potente perché consiste nel riprenderci il potere, opponendoci all’inutilità e allo spreco con la disubbidienza, la non violenza e l’attuazione di pratiche diverse.
Possiamo già da ora cambiare le nostre abitudini e i nostri stili di vita. Possiamo diminuire drasticamente i nostri consumi, eliminando gli sprechi. Possiamo divenire vegetariani e riprendere a camminare e ad usare la bicicletta. Possiamo rallentare il nostro tempo, smetterla di correre verso il nulla e riscoprire l’importanza dell’altro e dei nostri territori.
Possiamo iniziare direttamente noi e poi potremo anche richiedere che le nostre comunità attuino pratiche diverse, come già molti Municipi iniziano a fare. Che vengano incentivati il riciclo e pratiche artigianali tese al recupero dell’usato; negozi in cui si vendano prodotti sfusi onde eliminare lo spreco delle confezioni; banche del tempo in cui sia possibile scambiare tempo e non denaro; autoproduzioni locali sia artigianali che agricole; possiamo chiedere che vengano proibite bottiglie di plastica e ogni pubblicità cartacea; che si incentivi ogni abitazione a divenire autonoma dal punto di vista energetico; che si consentano connessioni gratis al web. E che si attui un grande piano educativo teso alla formazione di cittadini attivi.
Queste forme di lotta richiedono un impegno da parte di ognuno che va oltre la partecipazione ad un evento di poca durata come, ad esempio, una manifestazione o un’elezione. Richiedono una pratica quotidiana costante e diversa, capace di fondare relazioni altre. Fondano esse stesse quella che viene denominata democrazia partecipativa e che è l’unica democrazia possibile.
E non sono paranoie o astrazioni. Sono già pratiche attive per molti individui.
Se, ad esempio, rifiutassimo in gran numero la grande distribuzione e fondassimo nuovi e diffusi Gruppi di Acquisto Solidali a chilometro zero, costruirebbero sui nostri territori nuovi centri commerciali?
Se imparassimo ad usare il nostro territorio come un bene comune appartenente a tutta la collettività, lasceremmo che si riempisse di capannoni o abitazioni vuote? Lasceremmo avvelenare l’acqua e l’aria e la terra? Lasceremmo che solo pochi individui si spendano per il bene comune opponendosi al mostro Malpensa? Lasceremmo prevalere l’indifferenza?