Igino Giordani – Rivolta Cattolica

Editrice Città Nuova, 1997

Antefatto

Un mio caro amico notava che il dialogo fra l’ebreo e il giovane partigiano che io facevo avvenire su un treno in un mio romanzo, era un poco fuori luogo perché il partigiano era troppo giovane e l’ebreo usava concetti recenti, appartenenti alla quotidianità dei giorni nostri. In particolare l’ebreo sosteneva che “stiamo vivendo una tragedia [perché] il fine che perseguiamo [la liberazione dal nazifascismo] non potrà mai essere buono essendo già tutto nei mezzi sbagliati e inquinati dal male che siamo costretti ad usare”.
Non illudiamoci, diceva chiaramente l’ebreo, perché la violenza che siamo costretti ad usare ci impedisce di costruire un mondo diverso dal vecchio.
Replicai all’amico che la guerra matura in fretta e, pensando al Mahatma Gandhi, che la non violenza era professata e praticata da molti, anche prima della guerra di liberazione.
Circa un mese fa mi capitò di leggere un’intervista a don Andrea Gallo. L’anziano e ancora attivissimo prete, ricordava che da giovane era stato lettore di un libro di Igino Giordani, a quei tempi vietato, intitolato “Rivolta Cattolica”, nel quale si sosteneva che nazismo e fascismo causarono, oltre ai risaputi e immensi danni materiali, la rovina delle coscienze.
Comperai il libro e lo lessi. E ne rimasi subito favorevolmente coinvolto.

Rivolta Cattolica

Intanto “Rivolta cattolica” fu scritto nel 1925 in forma “di Strommata in 64°” [Strommati (lett. tappezzerie, tappeti) è l’opera maggiore di Tito Flavio Clemente detto l’Alessandrino in cui, in forma di miscellanea indaga il rapporto fra filosofia e Rivelazione], come dice ironicamente l’autore, “pensato a tozzo a tozzo in tram e buttato giù nei margini delle pratiche burocratiche”, con lo scopo di “richiamare alcuni principi cristiani” che in effetti non tardano ad essere elencati fin dalle prime pagine.
È la bellicosità dei tempi e la belluinità degli animi incarnate nelle estemporanee manifestazioni pseudo artistiche dei futuristi, inneggianti alla guerra come sola igiene del mondo, e dal fascismo che, dopo il delitto Matteotti, prende sempre più corpo in Italia, a preoccupare uno spirito cattolico e democratico come quello di Igino Giordani.
La sua analisi non può che iniziare dalla guerra.
“Non conosco cretino il quale non sentenzi:-La guerra c’è sempre stata e sempre ci sarà. E finché a reggere le sorti umane ci saranno cretini, può essere che sia così. La guerra è difatti un ascesso necessario dell’ignoranza.” Poco oltre Giordani utilizza parole quasi uguali a quelle usate da me nel mio romanzo e, dal momento che furono pensate nel 1925 e forse anche prima, confutano egregiamente l’osservazione fattami dal mio amico: “Aspettarsi, come s’è fatto, dalla carneficina una civiltà migliore, cioè dal male il bene, dal nero il bianco, è lo stesso che pretendere dalla ghigliottina il miglioramento pedagogico delle teste che recide.”
L’autore constata che la nostra vita nasce da fatti intrisi di sangue e che la china che l’uomo ha preso da quegli inizi non è affatto rassicurante. E prosegue riflettendo sul fatto che mentre si condanna a morte con leggerezza chi uccide un altro uomo non si faccia assolutamente nulla contro i ministri e i capi di Stato che, dichiarando guerre, uccidono popoli e ardono civiltà. Né sembra che il degrado morale e le ingiustizie sociali dilaganti preoccupino una maggioranza supina e acquiescente.
Igino Giordani capisce fin dal 1925 l’essenza vera del fascismo: “La ricchezza si ammassa nel pugno di pochi e tra essi i più audaci si preparano a spogliare sin dell’ultimo spicciolo la povera gente: la plutocrazia non ha patria, ma si vale del patriottismo degli uni e degli altri, di qua e di là del segno geografico, per avventarli al cozzo.”
Si impoveriscono i popoli per poi avventarli al cozzo. Ci dice l’autore. Esattamente come accade pericolosamente anche oggi. Man mano che leggo questo libro ho l’impressione che si stia parlando di cose attualissime. E, infatti ecco un’esortazione che è perfettamente calzante anche per questi nostri poveri tempi: ”Ridiamo all’Italia governanti che prendano e lascino il potere poveri, risparmiatori e custodi scrupolosi del denaro pubblico.” E un’altra che ultimamente, con qualche leggera variazione, si è risentita spesso dai califfi che ci hanno governato: “Nei discorsi accennati, duce e sotto-duce ribadirono la teoria che i delitti del fascismo, a cominciare da quello Matteotti, non vanno giudicati dai magistrati, ma dalla storia …”.
Igino Giordani è attualissimo nel denunciare il malcostume, la violenza, l’arricchimento di pochi, la miseria di molti, la violenza dilagante, i giornalisti e gli uomini asserviti al potere, l’incultura dilagante e la poca voglia di pensare e di essere attivi. Vorrebbe una democrazia piena in cui la libertà è di tutti perché altrimenti sarebbe di nessuno. “Se si vuole la libertà della Chiesa, dei cattolici, non si deve negare la libertà degli altri, cioè non si deve appoggiare la dittatura.” Specifica anche che la democrazia non è mai centralismo ma ricchezza di autonomie basate su un programma di vita dominato dalla non violenza. “Contro il paganesimo statale e nazionalista affermiamo le autonomie dell’individuo, della famiglia, dei sindacati, dei Comuni, della Chiesa, delle regioni.” […] “Programma di vita: l’antiviolenza, la non-violenza, con aspirazione cristiana a una fraternità di classi e di popoli, in cui non ci sia più posto neppure teorico per dittature borghesi o proletarie.”
Igino Giordani è, insomma e per tutti questi motivi, uomo modernissimo e grande maestro di vita.
Poco importa che lui sogni i cattolici al potere perché convinto che la morale ricchissima di valori di cui essi sono portatori, non potrà che arrecare bene e sobrietà alla vita pubblica della nazione. Noi, a posteriori, sappiamo che fine hanno fatto i sepolcri imbiancati democristiani; conosciamo gli affari miliardari dietro cui si è nascosto e continua a nascondersi con indecente finta ingenuità, l’ecumenismo e l’ascetismo di Comunione e Liberazione; siamo spiaciuti ma dobbiamo prendere atto dell’ormai cinquantennale mortificante misconoscimento dell’insegnamento del Concilio Vaticano Secondo. Ma a posteriori ogni giudizio è sempre più semplice. Proviamo invece a pensare che Igino Giordani si rivolga a noi tutti, al di là della fede o del credo filosofico che ci divide. Eccolo allora all’inizio del libro dire: “L’illustre Carneade, autore di questa roba qui, nutre l’illusione di eccitare nel cuore dei giovani – giovani di cuore ché vi sono ventenni già decrepiti nell’intelletto e nell’organismo – un impeto di rivolta.”
E poi, anche quando si rivolge esplicitamente a taluni cattolici, proviamo a pensare che in realtà si rivolga alla maggioranza silenziosa che si nasconde nel chiuso delle proprie case e che è la causa prima del degrado e dell’affossamento di ogni civiltà. Se negli ultimi anni venti anni siamo stati governati da una classe dirigente grezza, ignorante e volgare, se i valori dominanti sono stati quelli delle escort, dei soldi facili, dei grugniti e delle dita tese, dei litigi urlati e violenti, dell’apparenza, delle immagini, dei ceroni e del silicone, dei riti celtici, delle fucilate ai migranti e di quella che è stata definitiva mignottocrazia proprio da un esponente di rango di questa miserrima elite, la colpa non è di quei quattro pezzenti che hanno fatto vanto del loro semianalfabetismo e che, nonostante ciò abbiamo mandato in parlamento, ma di tutti coloro che li hanno eletti e che, anche se questo mio dire potrà dar fastidio, sono la maggioranza degli italiani.
Sentite cosa Igino Giordani dice di certi cattolici e, per un attimo, immaginate si rivolga ad un pubblico più vasto e a noi contemporaneo.
“La vecchia anima vile che anche fra i cattolici s’è insinuata come la tignola nella rovere, strizzando l’occhio o sfasciandosi di contentezza aveva creduto che si avvicinasse la cuccagna. Trovava chi combatteva per lei: che questo è quanto; chè la sua preoccupazione è stata sempre quella di dovere un giorno fare sul serio.
Don Abbondio. La tradizione d’un ceto di cattolici – gente per bene antonomasticamente – s’è in foggia mirabile espressa in Don Abbondio.
E’ quella che delle virtù cristiane predilige la prudenza cui sciupa e dilata nella pusillanimità. È quella che non ama urti, scosse, spinte; il vaso di terracotta che postula l’ovatta e il butirro. Ha in orrore i principi. I principi sono qualcosa di stabile che impongono resistenza quando il mondo attorno turbina e rotea, e quando la tempesta scroscia. Quelli di cui sopra invece aborriscono la lotta, Il nemico non lo combattono: lo corrompono. Lo corrompono ammansendolo, vellicandolo con le transazioni, i compromessi, i do ut des .. È una paccottiglia che ci fiotta tra i piedi, emolliente, snervante, che logora gli sforzi dei più onesti, affonda gli aneliti dei migliori: ingrigia, impaluda sentimenti e ideali. … Ha espresso dal suo seno una stampa che da trent’anni affloscia il carattere, crea il mollusco e l’invertebrato, elimina le figure espressive, in uno sforzo di uniformazione e mediocrizzazione. … non occupa una posizione. S’adatta a tutti gli angoli, tresca con tutti gli avversari, cerca di vivacchiare anche con Belzebù. Incolora, è sempre col forte: chi è forte ha Dio con sé….”
E la vera causa di questo degrado generalizzato è, secondo Igino Giordani l’incapacità ad usare la testa. “Il gran male del nostro tempo è la paura di pensare. Bisogna ardire di pensare. Verissimo: è la malattia denunciata tempo fa dal Prezzolini. Quanto ai cattolici, troppi di noi, afflosciati da un’atavica ignavia, siamo assueti a rimettere agli altri l’incarico di pensare, disimpegnandoci da tale fatica, felici di girovagare come otri leggeri. Sorge da questa nostra pigrizia l’ossequio e l’ammirazione baloggia verso egemonie e dittature nel campo della cultura e della vita.”

Un’ultima importante avvertenza.
Il linguaggio di Igino Giordani è fermo, netto. Dice pane al pane e vino al vino. E a me piace molto perché è ciò che, con la modestia di chi non si sente affatto un maestro, tento io stesso di fare. Ed è proprio il contrario di quanto s’usa fare oggi, quando, invocando un presunto rispetto per l’altro, o la non demonizzazione del nemico, si vorrebbe costringere tutti nello stesso immobile stagno putrescente.
Ecco cosa dice Igino Giordani: “Il linguaggio adoperato in questo lavoro ecciterà gli sdegni sinceri dei dabbenuomini posapiano, i quali impersonano un tipo di cristianesimo neutro, grigio, specie di “spolverino” nel viaggio del mondo. Il linguaggio per essi è una miscela incolore destinata a diluire il pensiero: offende quindi quando è il … pensiero. E se uno s’avventura a dire le cose col loro nome, è uno screanzato, anticristiano: questa è l’estrema risorsa. Uno scopre e documenta le infrazioni alla legge cristiana e vi aggiunge una nudrita protesta? Orbene, questo suo caldo parlare risenta dell’ira, questo sbendare debolezze è segno di poca carità, questo attaccare una persona è antievangelico. Altri ci dà le bische, i circoli in fiamme, le elezioni col manganello e la Ceka, le distruzioni della Brianza?…
Bisogna tacere: chi insorge vien meno alla carità di Cristo. In altre parole bisogna pigliarsi in santa pace le violazioni a tutto il corredo spirituale rimessoci dai Padri, e per soprammercato tacere, o baciare lo staffile che ci fustiga: meglio ancora unirsi al coro di lodi per la corrosione operata della morale cristiana.
Ma io scatto ed esorbito anche, quando vedo l’acredine e la petulanza e il sarcasmo con cui si attacca o si irride alla Chiesa e ai miei convincimenti, quando sento il tono gravido, d’oracolo catarroso, con cui la filosofia sedicente moderna graffisce le sue condanne inappellabili o nella sua corte Papiracea di Cassazione dà di frego alla morale cattolica…”

Anche oggi avremmo bisogno di gente che scatta ed esorbita! Di più gente avvezza a pensare e ad agire di conseguenza. Forse le cose non andrebbero così male. E forse, se iniziassimo noi, avremo meno da lamentarci addossando colpe agli altri.